Il carattere del Tintoretto

Si diceva che Pietro Aretino avesse sparlato del pittore il quale, incontrato per strada il terribile maldicente, lo invitò a casa sua per farne il ritratto. Aretino ci andò, e si mise a sedere in posa; Tintoretto, allora, col volto irato, tirò fuori un coltello a due tagli (il pistolese) da sotto i vestiti e mosse qualche passo verso il letterato. Pietro, spaventatissimo, iniziò ad urlare e a cercare una via di scampo, finché non s’accorse che Jacopo non aveva intenzione di ferirlo, quanto di fargli uno scherzo ammonitore, prendendogli col pistolese la misura della persona. Aretino non ebbe più ardire di sparlare del pittore, ed anzi gli divenne amico.

Il ponte delle origini

Vicino alla fine di fondamenta San Felice, arrivando da Strada Nova, c’è un ponte privo di parapetti: ponte Chiodo. Una volta, in città, erano davvero pochi i ponti dotati di protezioni; e più anticamente ancora i canali venivano oltrepassati con l’aiuto di semplici tavole.

Rispetto al più famoso ponte del Diavolo di Torcello, nessuna storia o leggenda è apparentemente legata a questo piccolo ponte del centro storico che, tuttavia, ha una curiosa peculiarità degna di nota: è l’unico ponte senza bande ancora esistente oggi a Venezia.

Calli e callette a Venezia

In prossimità delle Fondamente Nove, ma rientrando verso la zona di San Canciano, si trova la calle più stretta che possiate percorrere a Venezia. Si tratta dell’estremità finale di calle Varisco: un “budello” che si riduce fino ad una larghezza di 53 centimetri! A fare degna compagnia a questo tratto di strada, altre due calli: una a Castello di 58 centimetri e l’altra a Santa Croce, nelle quali il passaggio simultaneo di due persone può essere problematico, ma a volte molto piacevole…

CANCELLO

La Madonnina della Barchetta

Proseguendo per fondamenta della Misericordia, un po’ più avanti di Palazzo Lezze, s’incontra dall’altro lato del canale la Chiesa di San Marziale. Narra la leggenda che un pastore di Rimini intagliò una statuetta della vergine, e dopo averla deposta su di una barchetta, la affidò alle onde. Dopo molte peregrinazioni l’imbarcazione si fermò sulla riva della chiesa, e vi fu collocata all’interno alla presenza del doge e del Senato.

Un Diavolo in gonnella

In fondamenta de l’Osmarin, si aprono ponte e calle del Diavolo. Il ponte in questione è conosciuto anche come quello “della tentazione”. Ma perché questo nome? Una leggenda del Cinquecento racconta come un giovane, Tonio, intenzionato a prendere gli ordini incontrasse qui una prorompente ragazza che lo incitò a godere della vita con lei, e a non sacrificarla alla religione. Ma don Marco Fornaro, il canonico esorcista che era in compagnia del novizio (zio del novizio stesso) affrontò la donna col crocefisso in mano, costringendola a rivelare la sua vera natura di diavolessa.

Dov’è sepolto Marco Polo?

Quanto alla chiesa e al monastero di San Lorenzo (oggi casa di riposo), qui sarebbe stata rintracciata la sepoltura di Marco Polo il quale, nel suo testamento del gennaio 1323, espresse il desiderio di riposare per sempre in questo luogo. Due volte furono condotte delle ricerche per trovare la tomba, la prima nel 1908 e la seconda nel 1923: entrambe senza esito, perché si cercò negli spazi della chiesa di San Lorenzo. La tomba, infatti, venne rintracciata più tardi ai piedi dell’altare di San Sebastiano, ciò che rimane delle fondazioni di un’antica chiesetta dedicata al santo, adiacente a quella di San Lorenzo.

Il sottile linguaggio della seduzione

Nei pressi di campo San Giovanni e Paolo, in Barbaria de le Tole, vi è calle de le Moschete. Esisteva qui, come in altri luoghi della città, un posto dove si fabbricavano e venivano smerciati i piccoli e vezzosi nei finti in taffetà nero dei quali le veneziane facevano sfoggio sul viso o sul seno, e che venivano chiamati appunto mosche, o moschete. Erano perlopiù rotondi, ma anche a forma di cuore, di mezzaluna, di stella. Alla pari dei fiori, anche i nei avevano nomi diversi e un loro proprio linguaggio, spesso malizioso, a seconda del punto in cui venivano sistemati secondo regole assai precise.

Il galateo della tabacchiera

Ai primi del Seicento fu introdotto a Venezia anche il tabacco, che dagli iniziali scopi terapeutici divenne un vero e proprio vizio. La Serenissima fu il primo Stato al mondo a costruirne il monopolio della commercializzazione. Al cadere della Repubblica, il vizio di fiutare tabacco era diventato per molti un istintivo rifugio psicologico, un bisogno vitale, al punto che esisteva un apposito galateo sulla maniera di fiutare e utilizzare la tabacchiera.

Le case del boia di Venezia

Calle de la Testa prende il nome dal testone di pietra, infisso oggi abbastanza in alto sulla parete di una abitazione moderna, al civico 6216. Voce di popolo vuole che in questo luogo abitasse, nel Quattrocento, il boia di Venezia, e che nella bocca del gran testone, installato al tempo sulle pareti di casa sua, venissero furtivamente infilati i messaggi per comunicargli con anticipo il giorno e l’ora della prossima esecuzione, affinché si tenesse a disposizione. Ma “casa del boia”, a Venezia, sono dette anche una bassa costruzione rossa che si affaccia sul Canal Grande, tra il Fondaco dei TurchiRiva de Biasio, e l’edificio che si erge solitario in campo Santa Margherita, sul lato che porta a San Barnaba.

Il capitello infrangibile

In Crosera, all’incrocio con calle San Pantalon, è ancor oggi visibile un capitello raffigurante la Madonna del Carmelo, con bambino e un religioso nell’atto di ricevere le “pazienze” del Carmine (un camicione che i confratelli portavano sotto gli indumenti in segno di devozione). Achille De Carlo, nel suo “Capitelli veneziani” del 1912, racconta come la lastra di vetro che proteggeva l’immagine sacra fosse, secondo una leggenda, miracolosamente indistruttibile. Oggi non ci è dato sapere se la lastra installata sia ancora quella miracolosa: di certo è comunque intatta.

Il bicchiere di Sant’Antonio

Un’altra curiosa leggenda veneziana riguarda un bicchiere di Murano, arriva dalla Basilica di Sant’Antonio a Padova, dove si conserva “il bicchiere di Aleardino”. Aleardino da Salvaterra aveva affermato che avrebbe creduto nella taumaturgia di Antonio solo se il vetro che teneva in mano, scagliato sul selciato sottostante, non si fosse rotto. Il bicchiere restò integro. L’evento miracoloso accadde, seguendo le cronache, qualche mese dopo la morte del santo patavino avvenuta nel 1231. Il bicchiere è alto una dozzina di centimetri, incolore, con un filetto colato sulla sua parete ad un terzo dell’altezza. Sono in molti a pensare che si tratti, a tutt’oggi, del più antico manufatto esistente di arte vetreria veneziana.

Elena Corner Piscopia, prima donna laureata

Palazzo Loredan, prima di assumere il nome col quale è conosciuto oggi, appartenne a lungo ad un ramo della nobile famiglia dei Corner: tra le sue mura è nata e vissuta Elena Lucrezia Corner Piscopia, che conseguendo il dottorato in filosofia il 25 giugno 1678 divenne la prima donna laureata al mondo. Elena si sarebbe dovuta laureare in teologia; ma questo sarebbe stato troppo, per l’epoca, e venne così raggiunto il “compromesso” del dottorato in filosofia. Schiva, modesta e timida al punto che non avrebbe disdegnato passare la vita in convento, Elena morì giovane, a 38 anni: conosceva il greco, il latino, l’ebraico, il francese, lo spagnolo e l’italiano; studiava musica e matematica; aveva una perfetta conoscenza della dialettica, della filosofia, della teologia e dell’astronomia.

Le colonne rosa di Palazzo Ducale

Se stazionate davanti a Palazzo Ducale dal lato della Piazzetta, non potrete fare a meno di notare come la nona e la decima colonna a partire da sinistra siano in marmo rosso, invece che bianco. I pareri, in tal senso, sono discordi: qualcuno vuole che da quel luogo il doge assistesse alle esecuzioni, qualcun altro spiega come lì venissero bandite – come in altri punti della città – le leggi della Serenissima. Non mancò di certo, in qualche occasione, il loro utilizzo nelle sentenze capitali.

Venezia e il caffè

Il primo italiano a menzionare il caffè fu proprio un veneziano, Gianfrancesco Morosini, che nella sua “Relazione della Porta Ottomana”, letta nel 1585 al Senato, racconta come i turchi usassero “di bere pubblicamente, così nelle botteghe, come anco per le strade, non solo uomini bassi, ma ancora de’ più principali, un’acqua negra, bollente quanto possono sofferire, che si cava d’una semente, che chiaman kahvé la quale dicono che ha la virtù di far stare l’uomo svegliato”. 

Già nel 1683 c’era sotto le Procuratie una bottega da caffè all’insegna “dell’Arabo”, poiché gestita appunto da un arabo. Ben presto nella sola Piazza San Marco se ne contarono una trentina, tra cui il “Florian”.

Mamma li turchi!

Il ponte de la Chiesa, di fronte all’entrata principale della chiesa San Cassiano, segna il confine tra i Sestieri di San Polo e Santa Croce. Sul pilastro di una delle case che sorgono proprio sul ponte si legge una sorta di epigrafe storico-commemorativa dell’epoca (anche se probabilmente mai completata) relativa alla conquista ottomana dell’odierna Budapest, in Ungheria, che narra di un fatto estraneo alla storia veneziana ma che indica con altrettanta chiarezza l’attenzione con cui nei secoli si seguivano le vicende legate al nemico di sempre, il turco.

La marcia su Roma 

Rimanete in zona e addentratevi sotto i portici del tribunale uscendo verso la riva, tra l’Erbaria e campo della Bella Vienna: sul lato interno delle colonne leggerete facilmente alcune scritte fatte con pece o vernice nera, che risalgono all’epoca del ventennio fascista, ed in particolare ai suoi inizi, quando nel 1921 con la “Marcia su Roma” Benito Mussolini e le sue squadre fasciste, trasformate da poco in partito politico, di fatto conquistarono il potere in Italia senza che nessuno potesse fermarli, grazie anche all’appoggio in tal senso di re Vittorio Emanuele III, “sensibile” alla conversazione del movimento alla causa monarchica e alla rivalutazione dei “valori” della guerra: “W Roma intangibile” e “A Roma ci siamo e ci resteremo”, si può leggere ancora oggi sulle pareti.

… E quelli di Cà Pesaro

Altro palazzo, altra sede culturale veneziana, altro fantasma. All’ultimo piano di Cà Pesaro si trova, da molti anni, il Museo d’arte orientale di Venezia. Da sempre corre voce che nelle sale dell’esposizione permanente si aggiri lo spettro di un antico samurai, bardato dell’armatura tipica dei guerrieri giapponesi e armato della leggendaria katana, la spada creata apposta per servire un solo combattente. Ombre, luci e rumori… in molti, e in più occasioni, hanno giurato di aver visto aggirarsi la figura del fantasma, silenziosa e spaventosa come solo l’immagine di un guerriero può essere. 

Per molti, le spiegazioni “scientifiche” non sono mai state sufficienti; secondo loro, il fantasma del vecchio samurai si aggira ancora nel museo.

Napoleone e i leoni di Venezia

In campo Santa Maria Mater Domini, di fronte all’unico ponte che guarda al campo, si erge Palazzo Viaro. Guardatene bene la facciata: non potrete fare a meno di notare come all’altezza delle finestre del piano nobile, tra i fregi, sia chiaramente individuabile un leone alato scalpellato via. E’ quanto rimane della scempio perpetrato a pochi giorni dalla caduta della Repubblica, nel 1797. Per ordine di Napoleone, tutti i leoni di San Marco vennero eliminati (molti di loro sono stati ripristinati o rifatti in epoche successive). A svolgere il compito, secondo la tradizione, una squadra di tre scalpellini nominata per l’occasione. Si dice però che, per pigrizia, i tre abbiano deciso di non arrivare fino a Malamocco, al Lido, e che quindi i leoni di quel luogo siano quelli originali. Quello di Santa Maria Mater Domini, purtroppo, non fu tra questi.

I fantasmi del ponte della Latte

Sul ponte della latte, nella zona di San Giovanni Evangelista, si racconta un fatto curioso avvenuto nel 1844. Ad un finestrone della Scuola di San Giovanni Evangelista, appariva un lumicino fioco, uno spettro di luce tremante che spingeva la gente a fare ogni genere di congetture. Si parlava di stregoneria, di diavoli, di apparizioni di morti. Siccome lì vicino era stata uccisa da poco una donna, la “Brocchetta”, in molti giuravano che quella fosse l’anima dell’assassinata, e di come la si sentisse gemere e sospirare.

Il carattere del Tintoretto

Si diceva che Pietro Aretino avesse sparlato del pittore il quale, incontrato per strada il terribile maldicente, lo invitò a casa sua per farne il ritratto. Aretino ci andò, e si mise a sedere in posa; Tintoretto, allora, col volto irato, tirò fuori un coltello a due tagli (il pistolese) da sotto i vestiti e mosse qualche passo verso il letterato. Pietro, spaventatissimo, iniziò ad urlare e a cercare una via di scampo, finché non s’accorse che Jacopo non aveva intenzione di ferirlo, quanto di fargli uno scherzo ammonitore, prendendogli col pistolese la misura della persona. Aretino non ebbe più ardire di sparlare del pittore, ed anzi gli divenne amico.